La riscoperta del sacro e il superamento della crisi religiosa in questa postmodernità si traduce nella necessità di individuare strade educative che diano forma a un nuovo modello di credente. Dal punto di vista storico è stata l’apertura all’estetica della Bellezza di Von Balthasar, contenuta nella sua opera ommnia “Gloria”, che ha spronato ben tre papi alla definizione di queste vie educative. Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fatto proprio il pensiero di Von Balthasar e hanno indicato l’arte come via privilegiata.
Paolo VI ha particolarmente indagato sul rapporto esistente tra fede, Chiesa, arte e artisti. Fin da cardinale ha sollecitato quest’ultimi ad allacciare con la comunità cristiana una “rinnovata alleanza” attraverso cui esprimere con creatività e libertà il proprio genio. Da lui l’artista viene definito: veicolo, tramite, interprete, ponte tra il mondo religioso – spirituale e la società. Per Paolo VI la missione dell’artista è qualificata come “Parasacerdotale”, perché egli opera mediante il sacramento costituito dal segno sacro e sensibile insito nell’arte. Ciò comporta che l’artista debba essere adeguatamente formato e preparato al suo compito: “Vi domandiamo che questa vostra arte realmente e degnamente ci serva, che sia funzionale, che la possiamo capire, che ci offra un aiuto, che dica una parola vera che il popolo ne abbia una commozione sacra, religiosa. Siate veramente in comunione e in sintonia con il culto e con la spiritualità cristiana”. Come mai il papa parla di rinnovata alleanza? Una palese spiegazione è insita nel discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina il 7 Maggio 1964, il cui nodo centrale è la volontà di ristabilire l’amicizia tra Chiesa cattolica e artisti guastata da entrambe le parti per i seguenti motivi, imputabili tutti alla modernità: si è ricorsi ad un’arte staccata dalla vita reale; si è ricorsi ad un’arte staccata dall’esperienza religiosa con la conseguenza che l’arte è diventata incomprensibile; si è preteso l’assuefazione a cliché e modelli di poco pregio e di poca spesa. Per questo “Noi dobbiamo ritornare alleati”, dice il papa agli artisti; “Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione”. Per ritornare amici, Paolo VI propone due binari collaborativi sui quali camminare uniti. Il primo è la catechesi: “Attraverso di essa la comunità cristiana rende partecipi gli artisti della sua esperienza di fede, del suo itinerario spirituale, della ricchezza del patrimonio culturale e artistico.”. Il secondo è Il laboratorio: “Attraverso di esso l’artista mette a disposizione la sua genialità e abilità confrontandosi con la materia e con le esigenze e la finalità dell’opera da realizzare.” Paolo VI durante il suo ministero non dimentica certo la Bellezza, su cui si sofferma nel messaggio finale di chiusura del Concilio Vaticano II dell’8 Dicembre 1965. “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di Bellezza per non sprofondare nella disperazione. La Bellezza come la Verità, è ciò che infonde gioia nel cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”.
Ma come rendere partecipi gli artisti della esperienza di fede necessaria per rinnovare una alleanza capace di fare emergere la vera Bellezza? Giovanni Paolo II Non solo ha intuito che per uscire dalle crisi della postmodernità bisogna imparare a passare dal fenomeno alla ricerca del fondamento divino, ma ha anche sperimentato prima e promosso poi la sintonia didattica tra via della Bellezza e via della Verità. Nella lettera apostolica Duodecimum Saeculum del 4 Dicembre 1987 egli ribadisce la legittimità delle immagini sacre e della loro venerazione come stabilito dal Concilio Niceno II ecumenico, sottolinea il valore dell’arte per la Chiesa e conferma la sua missione evangelizzatrice: “Il credente di oggi, come quello di ieri, deve essere aiutato nella preghiera e nella vita spirituale con la visione di opere che cercano di esprimere il mistero senza per nulla occultarlo. È questa la ragione per la quale oggi come nel passato, la fede è l’ispiratrice necessaria dell’arte della Chiesa”. Nella lettera agli artisti del 4 Aprile 1999 il pontefice delinea per l’arte cristiana in genere e per l’artista in particolare, la necessità di una visione teologica imperniata sulla Trinità. L’artista deve essere l’immagine del Dio creatore, visto come colui che in modo perfetto è stato capace di disegnare il tutto. L’arte cristiana nella sua globalità trova la sua essenza nel mistero del Verbo incarnato e gli artisti sono invitati ad accogliere in abbondanza il dono elargito dallo Spirito Santo che “Fa dono di quelle ispirazioni creative da cui prende inizio ogni autentica opera d’arte”. Il punto cruciale della lettera agli artisti è il recupero del dialogo tra Chiesa e artisti in continuità con Paolo VI. Ma in più Giovanni Paolo II, pur riconfermando che la Chiesa ha bisogno dell’arte, si chiede: “L’arte ha bisogno della Chiesa?”. La risposta non è evidente, ma negli scritti del papa si sottende che se l’arte postmoderna è in crisi lo è perché manca di “etica” ed è incapace di darsi un senso spirituale. L’uomo è un essere religioso e simbolico per sua natura, per conseguenza anche l’artista lo è. Solo se l’artista si forma in tal senso anche l’arte che esprime diventa un’arte autentica che trova la sua etica e il suo sviluppo in un’ottica di rinascita e crescita. Per Giovanni Paolo II solo la Chiesa cristiana può dare gli indirizzi educativi corretti, e quindi: sì, l’arte ha bisogno della Chiesa più che mai in questa postmodernità. La lettera agli artisti si conclude con un inno alla Bellezza, quella Bellezza disinteressata già descritta da Von Balthasar: “La Bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la Bellezza delle cose create non può appagare e suscita quella arcana nostalgia di Dio che un innamorato del Bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili”. Poi nel discorso fatto al giubileo degli artisti del 18 febbraio 2000 completa il pensiero: “L’artista vive con la Bellezza una particolare relazione; è proprio questa la vocazione a lui rivolta dal Creatore…Se si è capaci di scorgere nelle molteplici manifestazioni del bello un raggio della Bellezza suprema, allora l’arte diventa una via verso Dio”.
Benedetto XVI al riguardo del rapporto tra Bellezza e arte e tra arte e fede durante il suo magistero si è sempre basato sulla centralità della figura di Cristo. Già nella presentazione del compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica del Giugno 2005 si esprime in questi termini: “L’arte parla sempre, almeno implicitamente, del Divino, della Bellezza infinita di Dio riflessa nell’icona per eccellenza: Cristo Signore, immagine del Dio Invisibile. Le immagini sacre, con la loro Bellezza, sono anch’esse annuncio evangelico ed esprimono lo splendore della Verità cattolica mostrando la suprema armonia tra il Buono e il Bello, tra la via Veritas e la Via Pulchritudinis”. Per Benedetto la Bellezza di Dio e del Verbo incarnato – Cristo, inducono l’attrazione profonda che nel cuore dell’uomo si trasforma poi in amicizia, in un amore ricevuto e ricambiato da cui scaturisce un intenso e vero sentimento di gioia. In una lettera a Mons. Ravasi del Novembre 2008, Il papa citando il sinodo dei vescovi tenuto lo stesso anno scrive: “Diversi interventi hanno evidenziato il valore perenne di una “bella testimonianza” per l’annuncio del Vangelo, sottolineando l’importanza del saper leggere e scrutare la Bellezza delle opere d’arte ispirate dalla fede e promosse dai credenti, per scoprirvi un singolare itinerario che avvicina a Dio e alla sua parola…Si ribadisce la bontà e l’efficacia della via Pulchritudinis, uno dei possibili itinerari, forse quello più attraente ed affascinante per comprendere e raggiungere Dio…Si ricorda la lettera agli artisti del mio venerato predecessore che invitava a riflettere [sul] fecondo dialogo tra la sacra scrittura e le diverse forme artistiche da cui sono scaturiti innumerevoli capolavori…Mi rivolgo particolarmente a voi, cari accademici ed artisti, perché è proprio questo il vostro compito, la vostra missione: suscitare meraviglia e desiderio del bello, formare la sensibilità degli animi e alimentare la passione per tutto ciò che è autentica espressione del genio umano e riflesso della Bellezza divina”. Per Benedetto XVI l’immenso valore simbolico – educativo della raffigurazione sacra in forma di icona è andato perso e va recuperato, reinterpretato in funzione di una Chiesa occidentale in grado di accettare le sfide negative della postmodernità. Come?
Già con la salita al soglio pontificio di Giovanni Paolo II la teologia dell’icona viene recuperata e inserita nel più ampio dialogo tra le chiese cristiane, in quell’ottica di apertura all’ecumenismo universale a lui tanto caro. L’arte dell’icona sacra è rivalutata dal papa polacco in ambito teologico – cattolico, come valido sussidio all’interno di quella via Pulchritudinis attraverso l’arte su cui costruire una catechesi del terzo millennio. In questo senso rimane fondamentale la sua lettera apostolica “Duodecimum Saeculum” dove, con mirabile sapienza teologica, delinea il possibile ruolo dell’icona nell’occidente cristiano postmoderno auspicando la sua riscoperta in funzione di una rinnovata spiritualità: “Da alcuni decenni si nota un recupero d’interesse per la teologia e la spiritualità delle icone orientali; è un segno di un crescente bisogno del linguaggio spirituale dell’arte autenticamente cristiana. A questo proposito, non posso non invitare i miei fratelli nell’episcopato a mantenere fermamente l’uso di proporre nelle chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre…L’arte per l’arte, la quale non rimanda che al suo autore senza stabilire un rapporto con il mondo divino, non trova posto nella concezione cristiana dell’Icona. Quale che sia lo stile che adotta, ogni tipo di arte sacra esprime la fede e la speranza della Chiesa. La tradizione dell’icona mostra che l’artista deve avere coscienza di compiere una missione al servizio della Chiesa…L’autentica arte cristiana è quella che, mediante la percezione sensibile, consente di intuire che il Signore è presente nella sua Chiesa…L’arte sacra deve tendere ad offrire una sintesi visuale di tutte le dimensioni della nostra fede”.
Joseph Ratzinger ancor prima di diventare papa riprende il tema della teologia dell’icona per trasporlo nell’ottica della dottrina cattolica, e lo fa basandosi anche sulla lettera apostolica Duodecimum Saeculum di Giovanni Paolo II. Da fine teologo, prosegue il discorso del suo predecessore approfondendo il legame tra arte sacra, icona e liturgia ma considerando anche i punti comuni tra arte sacra orientale e arte sacra occidentale. Nel capitolo “Lo spirito dona la visione del volto” contenuto all’interno del suo libro “Introduzione allo spirito della liturgia” troviamo l’espressione più completa del suo pensiero in merito all’arte sacra e al ruolo dell’icona nell’occidente postmoderno. La conclusione di tutto il ragionamento è un profondo richiamo a quell’invito, a dir il vero poco seguito, di Giovanni Paolo II rivolto ai cristiani del ventunesimo secolo di passare dal fenomeno al fondamento: “In fondo qui è in gioco il salto della fede stessa; è presente tutto il problema della conoscenza nell’epoca moderna: se nell’uomo non accade un’apertura interiore che vede più di ciò che è misurabile e ponderabile, che percepisce lo splendore del Divino nella creazione, allora Dio resta escluso dal nostro campo visivo”. Ratzinger si interroga, cerca possibili soluzioni chiedendosi: “Come si andrà avanti?” e si dà anche una risposta. La vera arte, quella che si fonde con il cristianesimo, ne è veicolo espressivo e via verso la conoscenza della Verità assoluta ossia Dio, è solo l’arte sacra. Non l’arte religiosa e tantomeno l’arte in genere ma quella che trova senso nella liturgia e ne è parte esaltante.
Perché per l’arte sacra deve sussistere una relazione con a liturgia? In quel Catechismo della Chiesa cattolica siglato da Benedetto XVI sta scritto: “Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole”. Lo stesso papa aggiunge, nell’udienza di mercoledì 26 settembre 2012: “C’è ancora un altro prezioso «spazio», un’altra preziosa «fonte» per crescere nella preghiera, una sorgente di acqua viva in strettissima relazione con la precedente. Mi riferisco alla liturgia, che è un ambito privilegiato nel quale Dio parla a ciascuno di noi, qui ed ora, e attende la nostra risposta”. Preghiera è incontro con Dio che trova la massima prossimità nel mistero liturgico attraverso “azioni e parole”, non ultima ogni forma d’arte. Su queste basi, il futuro papa traccia i principi fondamentali di un’arte sacra ordinata alla liturgia. Primo: “La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’incarnazione di Dio…Le immagini del Bello in cui si rende visibile il mistero di Dio invisibile sono parte integrante del culto cristiano…L’iconoclasmo non è una opzione cristiana”. Secondo: “L’arte sacra trova i suoi contenuti nelle immagini della storia della salvezza, a cominciare dalla creazione e dal primo giorno fino all’ottavo: quello della resurrezione e del ritorno, in cui la linea della storia si compie come un cerchio. Di essa fanno parte soprattutto le immagini della storia biblica, ma anche la storia dei santi come spiegazione della storia di Gesù Cristo…”. Terzo: “Le immagini della storia di Dio con gli uomini…Rimandano al sacramento, Soprattutto al battesimo e all’eucarestia ed in esso sono contenute…Quindi sono strettamente e intimamente legate all’azione liturgica. La storia, però diventa sacramento in Gesù Cristo che è la fonte dei sacramenti. Per questo l’immagine di Cristo è il centro dell’arte figurativa sacra. Il centro dell’immagine di Cristo è poi il mistero pasquale: Cristo viene rappresentato come crocifisso, come risorto,…come colui che ritorna…Ogni immagine di Cristo…Deve, cioè, essere immagine pasquale”. Quarto: “L’immagine di Cristo e le immagini dei santi non sono delle fotografie. La loro essenza è quella di condurre al di sopra di ciò che è puramente constatabile sul piano materiale e di insegnare un nuovo modo di vedere, che percepisca l’invisibile dentro il visibile…La sacralità dell’immagine …Deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un incontro credente con la nuova realtà del risorto e, in questo modo, condurre di nuovo allo sguardo interiore, all’incontro orante con il Signore. L’immagine serve alla liturgia…In comunione con la fede vedente della Chiesa: la dimensione ecclesiale è essenziale all’arte sacra, e così pure il legame interiore con la storia della fede, con la scrittura e la tradizione”.
In poche significative parole, Ratzinger riassume e completa il lungo e appassionato appello prima di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II sulla necessità di una nuova catechesi per il terzo millennio: non bisogna fermare lo sguardo al fenomeno visibile, occorre proiettare la mente alla riscoperta del fondamento; occorre imboccare la via Pulchritudinis attraverso l’arte. E lo fa con una proposta al contempo innovativa e sconcertante. Egli chiede di riprendere i dettami del Concilio VII Niceno al riguardo delle immagini, di tradurre e inglobare nella Chiesa cattolica i canoni più significativi dei concili ortodossi in tema di arte dell’icona, di non rinnegare l’immenso patrimonio artistico occidentale sviluppatosi anche dopo il XIII secolo, di rivalutarlo secondo una dinamica espressiva e interpretativa fondata sulla via Pulchretudinis. “Che cosa significa tutto questo in pratica? L’arte non può essere prodotta, così come si commissionano e si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono. L’ispirazione non la si può decidere, la si deve ricevere gratuitamente. Il rinnovamento dell’arte nella fede non sarà conseguito né con il denaro né con le commissioni. Esso presuppone, prima di ogni altra cosa, il dono di una nuova visione. Per questo tutti noi dovremmo essere preoccupati di giungere nuovamente a una fede capace di vedere. Dove questo avviene, anche l’arte trova la sua giusta espressione”.
Stabiliti i principi guida, l’arte sacra del terzo millennio presuppone di conseguenza una “nuova visione” consona con la postmodernità. Su questo punto Ratzinger amaramente constata che oggi siamo arrivati a un limite apparentemente invalicabile. Da un lato, dalla fine dell’arte moderna e con lo sviluppo dell’arte postmoderna, i principi dell’iconografia sacra sono stati ampiamente superati e ignorati dall’arte contemporanea; dall’altro lato l’arte contemporanea si dibatte in una crisi di identità e di valori che trascinano nel gorgo dell’inconsistenza anche la stessa arte sacra. Ci chiediamo allora come possono i rigidi canoni estetici dell’icona, o i più permissivi indirizzi di un un’arte sacra occidentale tuttora non regolamentati dalla Chiesa cattolica, convivere con l’astrattismo e la negazione del simbolo, la musica de-armonizzata, gli “ismi” continuamente generati da una cultura moderna senza riferimenti? Eppure un punto di incontro esiste. Pavel Evdokimov, teologo russo spesso citato da Benedetto XVI, nel suo libro “Teologia della Bellezza”, descrive le positività dell’arte moderna e delinea una possibile convivenza: “L’immensa impresa di demolizione inerente all’arte astratta è una forma di ascetismo, di purificazione, di affermazione che noi dobbiamo riconoscere con rispetto. Essa risponde alla purezza dell’anima, alla nostalgia della innocenza perduta, al desiderio di trovare almeno un raggio o uno sprazzo di colore che non sia insudiciato da una figura complice ed equivoca di quaggiù. Il suo rifiuto delle forme di questo mondo non è forse, nella sua più profonda sete, l’esigenza imperiosa del “Totalmente altro”?”. L’arte contemporanea e l’arte sacra si incontrano proprio in questa sete “del totalmente altro” perché nella natura creativa e simbolica dell’arte vi è sempre una tensione verso l’infinito e l’assoluto, un qualche cosa di sacro.
Tuttavia è innegabile che per gli artisti di oggi sia molto difficile rappresentare gli stessi temi della cristianità che per secoli sono stati la prima fonte di ispirazione, senza tenere conto che l’arte contemporanea è anche gioco, critica, polemica, conflitto. Difficile, ma non impossibile perché se è pur vero che il pensiero di questi tre papi si ferma qui, sull’auspicio del “dono di una nuova visione” fondato sul dualismo: arte che ha bisogno della Chiesa – Chiesa che ha bisogno dell’arte, è altrettanto vero che in questo dualismo il ruolo della Chiesa è preponderante, se non altro per il solo fatto che è chiamata a essere fonte ispiratrice. Ecco perché un artista – teologo di oggi, Ivan Rupnik, nel suo breve testo “L’autoritratto della Chiesa” afferma: “Noi crediamo che, per collaborare con il mondo, per collaborare con l’arte contemporanea, dobbiamo mettere a disposizione il presbiterio, che è praticamente l’unica cosa religiosa che ci è rimasta, e far lavorare lì gli artisti del mondo”. Parole che sottendono l’invito rivolto alla Chiesa di svolge degnamente il suo ruolo formativo. Per un verso aprendosi a un sano e collaborativo astrattismo e per l’altro formando artisti e fedeli sulle corrette dinamiche interpretative dell’arte sacra, indirizzando così a quella via della Bellezza continuamente richiamata da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma questo è un altro argomento che porta a ulteriori inattese riflessioni sul quel “rinnovamento dell’arte nella fede” tanto auspicato da questi papi.
Giuseppe Landini