Storie e personaggi

BONFRANCESCO ARLOTTI

Vescovo di Reggio dal 1477 al 1508

In Cattedrale, sulla parete di sinistra della cappella del Santissimo (a sinistra dell’altar maggiore) vi è un sepolcro rinascimentale, semplice, ma di perfetta eleganza, che ci presenta il defunto che dorme sulla sua arca con una statua piena di dignità, di spontaneità e di realismo. Il dormiente ha un sonno leggero e presto si risveglierà. Il sepolcro è opera di Bartolomeo Spani, il nostro grande scultore, e conserva le spoglie di Bonfrancesco Arlotti, che fu vescovo di Reggio dal 1477 al 1508, costruì, tra l’altro, anche questa cappella e volle esservi sepolto.

Egli merita un ricordo, poiché è uno di quei grandi concittadini che sono stati eccellenti in tanti campi e in tanti momenti, ma non hanno legato il loro nome a nessuna opera clamorosa, per cui i posteri si sono spesso dimenticati di loro.  

Un tempo circolava un’interpretazione romantica del Rinascimento, che lo vedeva come un’epoca di dei e di eroi, un’epoca nella quale, per un singolare dono della natura, in Italia erano nati ovunque dei Leonardo e dei Michelangelo, degli uomini irripetibili per intelligenza, cultura, sensibilità artistica, eccezionali contemporaneamente nel campo del pensiero ed in quello dell’azione. Tale fu il nostro Bonfrancesco.

Egli nacque a Reggio nel 1422 da un notaio, giurista e maestro di retorica, ed ebbe come fratello Aliprando, grande giurista, che collaborò alla stesura degli statuti di Reggio del 1501. Studiò all’università di Bologna; il suo testamento lo dice Doctor in Teologia, Filosofia, Arti (materie umanistiche) e Medicina. Passò poi ad insegnare filosofia all’università di Ferrara ed entrò nello stato ecclesiastico prendendo gli ordini minori; così divenne canonico e arcidiacono della Cattedrale di Reggio e Arciprete di  quella di Ferrara. Contemporaneamente entrò nella corte estense e fu inviato dal Duca Ercole a Roma come ambasciatore presso il Papa. Vi era certo già nel 1472, dato che in tale anno  vi fu ordinato sacerdote, e conservò l’incarico fino al 1491; questo però non comportava che egli stesse continuativamente nella capitale.

Nel 1476 morì il vescovo di Reggio, Antonio Beltrando, ed il Papa, Sisto IV, pensò di nominare al suo posto l’Arlotti; il Duca però aveva già promesso tale sede ad un membro dell’importante famiglia degli Ariosto, Lodovico (zio del poeta), e scrisse minacciosamente all’Arlotti di rifiutare tale incarico e di distogliere il Papa da tale idea. Per sua sfortuna, anche il Papa aveva un bel carattere e dopo un anno di controversie confermò la nomina dell’Arlotti. La gioia dei reggiani fu molto grande, data la fama di cui egli era circondato, ed egli, visto che la situazione italiana era abbastanza calma, potè prendere possesso della sua diocesi e risiedervi abbastanza continuativamente fino al 1482; poi la guerra di Ferrara lo costrinse a tornare a precipizio a Roma.

Tornata la calma, l’Arlotti cominciò a sollecitare il Duca perché lo esonerasse dall’incarico e gli consentisse di tornare in diocesi, ma quando questo finì per acconsentire, egli fu trattenuto a Roma dal Papa, che finalmente lo lasciò partire nel 1491. Dopo di allora , ormai vecchio ma pieno di energie, rimase a Reggio, dove morì il 7 gennaio 1508.

La storia dell’Arlotti è interessante in sé ed è molto utile per conoscere i problemi e ricostruire i particolari di un modo di vita tanto distante dal nostro. Ci mostra innanzitutto come fossero diversi allora i rapporti tra Chiesa e Stato. Mentre oggi sono impostati su una sistematica separazione, allora erano basati sulla collaborazione, in nome dell’unica fede che indirizzava l’operato di entrambi verso lo stesso fine. Essendo il Cristianesimo anche la base dell’unica cultura, gli stessi individui si sentivano cittadini della Chiesa come dello Stato, per cui la condizione di chierico, ad esempio, non ostacolava lo svolgimento di mansioni puramente civiche. Così l’Arlotti, vescovo di Reggio, faceva in realtà l’ambasciatore ducale. Questo produceva dei vantaggi e dei danni ed in particolare determinava una situazione aperta a prevaricazioni di una parte sull’altra. 

Il Duca d’Este, ad esempio, faceva una politica di stretta unione col Papa, e questo era utile alla Chiesa che era uscita da poco dal Grande Scisma e si stava riorganizzando, ma comportava poi il fatto che il Duca pretendesse che il Papa nominasse nei benefici maggiori solo uomini a lui fedeli, che avrebbero rafforzato l’unità dello stato attorno alla casa regnante. Il Duca però aveva anche un fine molto più pratico: se un suo cortigiano otteneva un ricco beneficio, di fatto era il Duca che si impadroniva dei proventi relativi, poiché smetteva di pagargli lo stipendio ed egli era costretto a mantenersi a spese del suo beneficio. Così capitò anche all’Arlotti, che a Roma viveva con la rendita del vescovado e coi soldi del fratello e a volte era costretto a contrarre debiti. Egli arrivò a scrivere al Duca: “tutto quello che me facite spendere è rapito suso lo altare”, ma le sue sollecitazioni non servirono ed egli morì senza aver ricevuto quanto gli spettava.  

Quest’uso di impiegare alti prelati, e particolarmente i vescovi, in mansioni statali era di grave danno alla Chiesa, poiché ne rimanevano sacrificati gli enti ecclesiastici ed in particolare la pastorale. Questo in parte accadde anche all’Arlotti, che però ebbe il tempo e le energie sufficienti per compiere una vasta opera sia in campo spirituale che in quello materiale. In proposito la documentazione è scarsa; sappiamo però che il suo primo atto dopo la presa di possesso fu la nomina (18/11/’77) del “sindaco dei poveri”, un notaio che doveva difendere i diritti dei poveri nello loro controversie legali; seguirono atti di normale amministrazione. Nell’estate successiva è documentata la sua presenza in montagna, dove probabilmente egli compì una vera visita pastorale, cosa allora di grande importanza, viste le difficoltà di controllo e la moltitudine di abusi e di irregolarità che si erano assommate nel tempo. Ugualmente importante era la situazione dei monasteri cittadini, vari dei quali erano dilaniati dallo scontro tra coloro che volevano tornare alla severa regola primitiva (gli Osservanti) e quelli che non volevano rinunciare agli accomodamenti successivi. Particolari tensioni emersero nel convento femminile di S. Chiara e in quello maschile di S. Agostino; poi vi furono le lunghe e difficoltose trattative per il convento femminile di S. Raffaele, che si conclusero con la divisione delle suore in due conventi diversi. Purtroppo l’Arlotti non riuscì a impedire che da questo si originasse, nel primi 15 anni del Cinquecento, la guerra civile tra le due fazioni dei Bebbi e degli Scaioli.

Dopo il ritorno da Roma nel 1491 egli si diede ad un’intensa attività edilizia che definì il volto del centro cittadino. Restaurò il battistero e vi pose il bellissimo fonte battesimale, datato 1494 e sul quale campeggiò il suo stemma fino al 1796, quando i prodi rivoluzionari napoleonici, in nome della libertà e dell’uguaglianza (ma non della fraternità), imposero ai nobili di cancellare dagli edifici tutti i loro stemmi. Poi restaurò ed ampliò il palazzo vescovile, che arrivò a inglobare il battistero. Infine si concentrò sulla cattedrale, riprendendo un’iniziativa del primo anno del suo vescovado. Il 2/1/’78 infatti aveva concordato coi canonici una riforma delle loro costituzioni, che produsse le nuove norme del 22/12/’78, in base alle quali venivano eliminate indebite libertà, ma contemporaneamente si destinavano nuovi fondi per il pagamento dei servizi in cattedrale. Negli stessi anni Filippo Zoboli, abate di S. Prospero e vescovo di Comacchio, faceva costruire la nuova sagrestia e la biblioteca, alla quale poi l’Arlotti lascerà i suoi libri. Nel 1496 quest’ultimo continuò l’opera emanando disposizioni per tutti i sacerdoti e i chierici della cattedrale. Ne seguì che i riti religiosi divennero così partecipati che le absidi risultarono insufficienti e l’Arlotti, da buon uomo del Rinascimento, le fece abbattere e ricostruire 10 metri circa più avanti verso piazza S. Prospero. Questo comportò ovviamente anche il rifacimento delle due cappelle ai lati di quella maggiore: a sinistra quella del Vescovo, a destra quella dei canonici (di cui rimane la chiave di volta con la data 1506).

Abbiamo ancora notizia di due interventi significativi di Bonfrancesco: nel 1492 fu lui personalmente che, mosso da una strana indicazione spirituale, volle portare avanti la beatificazione di suor Giovanna Scopelli; nello stesso anno lavorò per lo sviluppo di una confraternita, nuova nell’impostazione e destinata ad un grande successo nei secoli seguenti: quella del SS. Sacramento. 

Di fronte a tutte queste notizie, dietro le quali certo stanno tante altre opere dell’Arlotti di cui si è persa la documentazione, sorge il rammarico che egli sia stato così a lungo lontano da Reggio e che così sia stato ridotto il suo lavoro strettamente pastorale. A parziale compenso di questo va tenuto presente che la residenza del vescovo presso il Papa o presso il Principe era anche di grande aiuto per gli Anziani di Reggio nella gestione dei loro complessi rapporti politici e soprattutto che la presenza sulla cattedra episcopale reggiana di grandi vescovi, come Battista Pallavicini (1444-1466), Bonfrancesco Arlotti e Ugo Rangone (1512-1540), tutti di grande levatura intellettuale e tutti attivi per lunghi periodi presso i centri della cultura e dell’arte, ha fatto sì che la civiltà rinascimentale passasse anche di qui. Guardiamo le absidi del Duomo, al di là delle deturpazioni successive e dell’impedimento di altre costruzioni: quando il Vescovo le ha rifatte aveva la cultura e la possibilità politica di realizzarle all’altezza della miglior architettura ferrarese. (Z. D.)