Storie e personaggi

CHIESA DI S. GIOVANNI EVANGELISTA

Se ne ignora l’origine. Il documento più antico: un privilegio di Papa Lucio II del 2 aprile 1144.

Nel sec. XIV era parrocchia, lo rimase fino al 1808 quando questa fu trasferita in S. Stefano.

Non si hanno notizie per il Quattrocento, all’inizio del Cinquecento era “un guasto orribile, anzi non restavano che dei ruderi” (Saccani, opuscolo del 1896)

Nel 1502 la chiesa risultava da tempo distrutta (“iam diu solo aequata) e si decise di ricostruirla affidando il lavoro a Girolamo Casotti, figlio di Antonio; nel 1545 però non era ancora terminata. Ulteriori lavori la portarono ad essere nel 1563 circa nella condizioni attuali (a parte la serliana di facciata, che fu aperta nel Seicento per dar luce ai nuovi affreschi, mentre nell’Ottocento furono chiuse le due serliane che davano luce ai quadroni del Tiarini in presbiterio).

Agli inizi del Seicento si realizzarono gli affreschi che ancora vediamo.

Confiscata e messa all’asta in epoca napoleonica, fu venduta nel 1808 a Luigi Trivelli. Allora si cercò inutilmente di trasformarla in abitazione civile, poi la si usò come deposito di rifiuti.

Nel 1896 il nuovo proprietario, conte Ferrante Palazzi Trivelli, “la consegnò e affidò a tempo indeterminato e con patto di irrevocabilità” alla Confraternita dell’Immacolata o di S. Francesco, che la gestisce tuttora. 

Questa aveva perso nel 1860 il proprio oratorio (distrutto per far posto alla canonica di S. Francesco), e sopravviveva nella cappella del Sepolcro (accanto all’ex-oratorio). Ottenuta la chiesa di S. Giovannino, vi si trasferì il 17 luglio 1896 con una grande processione, portandosi dietro le statue del Sepolcro del Mazzoni e l’immagine “taumaturgica” del Volto Santo. In S. Giovannino la confraternita sviluppò il culto a S. Antonio da Padova e in suo nome istituì “l’Opera del pane per i poveri”.

Subito prima della II guerra mondiale la Confraternita, retta dall’avv. Nino Leuratti, riuscì a restaurare tutte le pitture dell’interno, ad opera di Anselmo Govi, ed introdusse nella chiesa anche il Culto della Madonna di Pompei.  

Il pregio della chiesa sta tutto nella sua decorazione interna, o almeno in quello che si è salvato. Infatti i quadri che adornavano gli altari sono andati dispersi in epoca napoleonica.

Gli affreschi sono tutti degli inizi del Seicento, sono contemporanei a quelli della Ghiara e rientrano in quella vasta esplosione d’arte che si ebbe in città a partire dal Giudizio Universale del Procaccini in S. Prospero per proseguire col rifacimento dell’interno della cattedrale, con la costruzione e decorazione della Madonna della Ghiara, coi grandi cicli pittorici di S. Giovannino e dell’oratorio della Confraternita della Morte.

Nel catino al di sopra del coro Paolo Guidotti, lucchese, dipinse una Resurrezione. Il pittore è tuttora poco noto e poco studiato. Un suo contemporaneo, il van Mander, nel 1604 scriveva di lui che era “eccellente e superiore, di natura diversa dagli altri maestri, formando concetti e invenzioni rarissime. E benchè alcuni non lo considerino come del tutto sano di mente…”. La scena è di grande drammaticità e varietà: incentrata sul corpo nudo di Cristo illuminato da una luce violenta, varia nella reazione e comportamento dei singoli personaggi: i due poli della scena sono all’inizio e alla fine della linea compositiva fondamentale del dipinto, che parte dal Cristo e, inclinata a 45 gradi, si conclude in basso a sin. nel corpo e nel volto dell’uomo riverso.

L’affresco della cupola è stato eseguito da Sisto Badalocchio, parmense, nel 1613, proprio nel tempo in cui il Guidotti terminava la pittura del catino. L’invenzione riprende quella del Correggio in S. Giovanni a Parma, quella cioè di sfondare l’architettura con una visione di cielo piena di angeli e di figure; ovviamente nei particolari il Badalocchio non copia, ma ricrea la scena. L’interpretazione del soggetto è meno ovvia di quanto sembri: non è infatti l’Ascensione, ma la visione di Cristo che ebbe S. Giovanni morente. Del Badalocchio sono anche le 4 figure dei pennacchi raffiguranti le virtù cardinali, che possono confrontarsi utilmente con quelle analoghe della Ghiara. Il Badalocchio in effetti era tanto considerato a suo tempo, che gli Anziani di Reggio lo consultarono per affidargli la decorazione di un braccio della Ghiara, che fu poi realizzata dal Lanfranco.

L’affresco della cupola è stato eseguito da Sisto Badalocchio, parmense, nel 1613, proprio nel tempo in cui il Guidotti terminava la pittura del catino. L’invenzione riprende quella del Correggio in S. Giovanni a Parma, quella cioè di sfondare l’architettura con una visione di cielo piena di angeli e di figure; ovviamente nei particolari il Badalocchio non copia, ma ricrea la scena. L’interpretazione del soggetto è meno ovvia di quanto sembri: non è infatti l’Ascensione, ma la visione di Cristo che ebbe S. Giovanni morente. Del Badalocchio sono anche le 4 figure dei pennacchi raffiguranti le virtù cardinali, che possono confrontarsi utilmente con quelle analoghe della Ghiara. Il Badalocchio in effetti era tanto considerato a suo tempo, che gli Anziani di Reggio lo consultarono per affidargli la decorazione di un braccio della Ghiara, che fu poi realizzata dal Lanfranco.

Tutto il resto della volta della chiesa è opera di due pittori: Tommaso Sandrini, di Brescia, e Lorenzo Franchi, bolognese. Il Sandrini era un famoso quadraturista, cioè uno di quei pittori specializzati nella realizzazione di quelle strane e monumentali cornici barocche che dilatavano l’effetto dei quadri e sembravano modificare le pareti. In quegli stessi anni egli dipinse le finte architetture della cupola della Ghiara, di cui il Lanfranco dipinse le figure. In S. Giovannino ha realizzato con una tecnica perfetta ed ottimi risultati quel grande colonnato scorciato di sottinsù e quel soffitto illusoriamente piatto su cui poi il Franchi ha dipinto tre scene ispirate all’Apocalisse: partendo dalla facciata, S. Giovanni che ispirato dall’angelo concepisce l’Apocalisse, gli angeli con i sette sigilli e l’angelo che incatena il demonio. Rimane tuttavia un certo divario tra le opere dei due artisti, poiché il Franchi non sa scorciare di sottinsù e realizza le sue scene come fossero quadri da guardare dal davanti.

Questa grande decorazione pittorica è completata dai due quadroni del Tiarini ai lati del presbiterio. Raffigurano il martirio di S. Giovanni, da cui il Santo sopravvisse, e la morte del Santo. Anch’essi erano migrati per altri lidi, uno alla galleria Fontanesi, l’altro nel tempio della Ghiara, ma dovevano essere ingombranti visto che quando nel 1939 la Confraternita li richiese, li ottenne senza contrasti. Purtroppo oggi sono poco leggibili, sia per lo sporco, sia per mancanza di luce, visto che sono state chiuse le due finestre che li illuminavano. Eppure sono i capolavori della chiesa. Ricorda il Malvasia che l’artista anziano li ricordava con particolare compiacimento e ne parlava come delle opere che gli erano più care. E’ curioso il fatto che essi furono commissionati da un sacerdote, don Silvestro Menghi, per ricordare una nipote, morta prematuramente. Così egli pretese che il pittore la raffigurasse in Paradiso sulla sinistra del quadro della morte di S. Giovanni e poi al di sotto fece raffigurare se stesso.

L’ultimo grande complesso su cui si basa l’importanza della chiesa è dato dalle 7 statue in terracotta dipinta a dimensioni naturali eseguite dal Mazzoni nella seconda metà del Quattrocento. Esse costituivano un “Sepolcro” cioè un compianto su Cristo morto che nella settimana santa veniva esposto ed addobbato con grande varietà e ricchezza. Il loro culto era grande, tanto che la Confraternita aveva costruito appositamente un piccola cappella accanto al proprio oratorio per custodirle. Se ne ignorava l’autore, che fu individuato nel Mazzoni da Adolfo Venturi (oggi però l’attribuzione è contestata). Questo provocò una polemica col Saccani, che presentò un documento che parlava di un sepolcro esistente in S. Francesco fin dalla prima metà del Quattrocento, opera di Marsilio di Michele Dini fiorentino. Era la tipica controversia tra un critico d’arte che giudicava in base a quello che vedeva secondo le sue conoscenze ed il suo intuito, ed uno storico, che si fidava non di sé, ma dei documenti scritti. Anche questi però possono ingannare, quando i legami con una realtà precisa sono sfumati. Si badi però che il Sepolcro non è più nelle condizioni originarie, non solo per la mancanza della statua del Cristo morto, ma anche perché vi sono state inserite due figure spurie, una seconda Madonna ed un secondo S. Giovanni, che certo provenivano da una Crocifissione coeva.

Zeno Davoli