Storie e personaggi

MARCHINO DA CASTELNUOVO MONTI

Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1596, davanti all’immagine della Madonna dipinta sul muro di cinta del convento dei Serviti, un trovatello di circa 15 anni soprannominato Marchino da Castelnuovo Monti, sordomuto e senza lingua, all’improvviso guarì: gli si sviluppò una lingua normale e cominciò ad udire e a parlare correttamente.
Era già più di un mese che circolavano notizie di miracoli attribuiti alla Madonna della Ghiara ed il Vescovo, Claudio Rangone, aveva incaricato il suo Vicario, che lo sostituiva anche come presidente del Tribunale vescovile, di riunire i suoi collaboratori e di appurare la verità dei fatti; così la mattina stessa del 29 aprile si riunirono a precipizio il Vicario, un teologo domenicano, un canonico, il mansionario della cattedrale e due sacerdoti e, alla presenza di vari laici e del notaio che verbalizzava tutto e scriveva le deposizioni dei testi, interrogarono Marchino, i suoi genitori adottivi ed un beccaio. Nel giro di alcune sedute furono interrogati complessivamente 22 testimoni, che parlavano tutti per esperienza personale e diretta, tra cui il conte Carlo Vallisneri, il capitano Piramo Vologni, fra Teodosio da Reggio, canonico regolare, Luigi Calcagni, Alessandro Cassoli e Cincinnato Munari, giudici delle vettovaglie e strade, ecc. Poiché il Vallisneri affermò
– in contrasto con tutti i testimoni reggiani – che Marchino simulava la sordità per non lavorare ed era appoggiato in questo da alcuni castelnovesi, questi furono interrogati una seconda volta e si appurò che il Vallisneri aveva un’ostilità preconcetta nei confronti di Marchino, mentre gli altri, che erano tutti economicamente legati al Vallisneri, si giustificarono dicendo all’incirca:” io non ho mai provato se Marchino fosse sordo o no, perché era inutile, visto che non rispondeva, ma se lo dice il Conte è vero”. Il Vallisneri poi fu energicamente smentito dalla ex “donzella” di sua madre e dalla serva di sua moglie, dal farmacista di Castelnuovo e da due testi che avevano conosciuto Marchino prima che si trasferisse da lui.

Terminata l’audizione dei testi, il tribunale si riunì altre due volte assieme ad una commissione di 5 canonisti, una di 4 medici ed una di 10 teologi che dovevano rispondere rispettivamente ad uno di questi tre quesiti: se i fatti fossero stati accertati adeguatamente e chiaramente, se l’episodio potesse essere accaduto naturalmente o fosse praeter naturam (fuori dalle leggi naturali) e, in questo secondo caso, se potesse trattarsi non di miracolo, ma di inganno demoniaco. Concordemente si concluse che il fatto era perfettamente accertato e che doveva ritenersi praeter naturam e miracoloso. Verbalizzato il tutto, si inviarono gli atti del processo alla commissione romana competente, che in data 22 luglio 1596 rispose con molta prudenza: “Questi SS. Illustriss. tengono che il giudicio fatto da Vostra Signoria [il Vescovo] non sia senza probabile fondamento. Però le SS. loro Illustriss. sono di parere che non solo la detta divotione ò frequenza di popolo debba essere tollerata, ma che si possi aiutare et permettere con qualche dimostratione publica”. Era l’autorizzazione al Vescovo a dare alla devozione popolare il crisma dell’ufficialità e il riconoscimento della
Chiesa.
Tutti gli atti del processo a Marchino si conservano ancor oggi e sono la fonte principale delle notizie che abbiamo su di lui. Nonostante le ricerche, non si potè appurare nulla sulle sue origini: egli doveva provenire da un paese della montagna non lontano da Castelnuovo (“si ha qualche inditio, ch’egli venisse di là del fiume Enza, in su le montagne di Parma”), ma non si scoprì né dove né quando fosse nato, chi fossero i suoi genitori e neppure come si chiamasse, dato che il soprannome di Marchino gli era stato dato dai ragazzi di Castelnuovo. La sua storia dunque comincia qualche tempo prima del 1590, quando, presumibilmente sugli otto anni, fu visto mendicare a Castelnuovo e fu accolto in casa per carità dal farmacista. Poco dopo però lo prese con sé il conte Vallisneri per farne un suo servitore: per chi non voleva far conoscere in giro i fatti propri un servo sordomuto poteva essere prezioso. Presto tuttavia il Vallisneri cominciò a provare antipatia per il ragazzo: lo batteva anche crudelmente e, dopo averlo portato con sé a Reggio, lo cacciò di casa dopo meno di un anno. Così “la prima volta che questo puto chiamato Marchino venne in beccaria egli era in camiscia con uno strazzo di grembiallo et pioveva et era freddo et intesi dal servitor del S.or Co. Carlo Valisneri che l’haveva cacciato di casa così bello e nudo per certo fatto in casa che li davano la colpa. Et venne appresso a me et con cenni dimandava limosina, onde io et M. Tommaso beccaro lo facessimo scaldare et perché dubitavamo che egli a posta facesse il muto, li facessimo aprire la bocca et cognosessimo la verità, che non haveva lingua in bocca se non poca poca alla quantità di un’ongia di un dito et quela anco l’haveva giù giù nel pallato verso la golla…” [testim. Vincenzo Pasquali beccaro]. Allora Marchino “si fermò in beccaria ove è stato dal detto tempo in qua facendo serviggi alli beccari … in scorticare [le bestie] et anco portando carni per la città alli cittadini et gentilhuomini”. Per questi suoi “serviggi … alli beccari … et gentlhuomini” gli Anziani di Reggio il 4/5/1596, riferendo del miracolo al Duca di Ferrara, lo poterono definire: “il più vile sì [cioè di umile condizione], ma il più noto che fosse nella città”.
Questa notorietà rende così abbondanti e degne di fede le testimonianze su di lui. Tutti i testimoni reggiani affermarono con certezza e con dovizia di particolari che egli era del tutto sordo.
“Una volta … pigliò esso testimonio un archobuggio da fuoco et se li accostò tanto che lo poteva toccare appresso la finestra et senza che Marchino lo vedesse diede il fuoco al detto Archobuggio et lo sparò; nè però il detto Marchino si mosse per niente; anzi …” [testim. di Tommaso Scurani beccaio]. Altrettanto sicuro è l’elemento fondamentale del miracolo, cioè che egli non avesse la lingua: “non haveva lingua che a pena si vedesse, come esso testimonio et sua moglie et altri ancora assai gli hanno fatta a posta aprire la bocca et così hanno ritrovato; né tanta ne havea che potesse bere senza rivolgersi adosso il vino …et manzava anco male, non potendo inghiotire se non con dificultà” [testimonianza di Ciano e altri].
Nonostante queste menomazioni, Marchino era buono, intelligente, servizievole, per cui fu accolto in casa da un coppia di beccai senza figli, Sebastiano detto Ciano e Caterina (la Ciana), e per quasi 5 anni visse la vita dei ragazzi del mercato. Nel maggio del 1596 la madre adottiva lo portò con sé in pellegrinaggio a Loreto per chiedere alla Madonna la sua guarigione; nel ritorno si fermarono anche alla Madonna di Imola e, mentre pregava, Marchino fu preso da uno strano turbamento e si coprì di sudore. Uscito di chiesa “mostrò a tutti un poco di lingua et ci mostrò anco con la mano un orecchio, con che venissimo in cognitione che egli cominciava ad udire così in confuso il suono delle voci, ma però non intendeva le parole né mai parlò cosa alcuna”. La madre subito disse che la Madonna lo voleva guarire e lo “votò” (come si diceva) alla Madonna, cioè fece voto che, se egli fosse guarito, le avrebbe portato “un’imagine di argento et una torza et quando si
celebrasse in quel luoco di farle dire una messa”. L’entità della promessa ci dimostra l’attaccamento che ormai la Ciana aveva per Marchino: i poveri infatti promettevano solo una candela o un’immagine della parte guarita in cera, i ricchi un’immagine in argento; anche l’aggiunta della celebrazione della Messa è rara.
Giunta a Reggio la sera del 25 aprile, la Ciana, prima ancora di andare a casa, su sollecitazione del marito che le riferì del grande numero di fedeli che accorrevano, portò il “putto” davanti alla Madonna della Ghiara. Nei giorni seguenti Marchino si recò a pregare la Madonna mattina e sera; il 28 aprile, a sera, era assieme alla Ciana; la ricondusse a casa, poi tornò dalla Madonna; appena passata la mezzanotte ebbe di nuovo un grande turbamento, si coprì di sudore e all’improvviso disse tre volte: “O Jesù Maria”. Nonostante l’ora, vi erano là ancora dei fedeli, che rimasero molto meravigliati ed uno di loro accompagnò Marchino verso casa; quando lo lasciò, egli, pensando di sognare, andò a picchiare con la testa contro un leone di S.
Prospero, ma ottenne solo di farsi male a un occhio. Entrato in casa, fu accolto male da Ciano che lo rimproverò a cenni perché tornava così tardi, ma egli disse: ”Sto bene, ma mi fa male un occhio”; allora Ciano svegliò la moglie gridando: “Il muto parla”.
In questo evento il tribunale identificò quattro miracoli: il fatto che Marchino avesse recuperato l’udito, che gli si fosse sviluppata la lingua, che egli subito fosse stato capace di usarla per parlare e che conoscesse tutte le parole (la mattina del miracolo infatti egli parlava già correttamente). Quest’ultimo elemento è più discutibile degli altri, poiché, non conoscendo l’infanzia di Marchino, possiamo ipotizzare che egli abbia potuto perdere l’udito per un evento traumatico a 3 anni, ad esempio, quando già conosceva le parole; giustamente invece i contemporanei ritenevano inspiegabile che Marchino sapesse già usare la lingua, sapendo quanti mesi impiega un bimbo per imparare a parlare. Nella discussione in tribunale uno dei presenti citò anche il caso di un bimbo di forse 5 anni, trovato in Appennino tra le fiere, che emetteva solo suoni indistinti, ma che dopo 5 mesi cominciò a parlare normalmente.
In realtà Marchino stesso, nella sua prima deposizione, affermò: “Io sono nato muto et sordo” e il tribunale accettò per buona la sua dichiarazione, forse in vista dell’avvallo divino che poteva vantare. Per noi la sua vita successiva è prova di buona fede, ma forse non è sufficiente a superare l’obiezione che lo stesso evento traumatico ipotizzato possa aver bloccato tutta la memoria del ragazzo sulla sua vita precedente. Nella crescita della lingua invece, che è la parte di gran lunga più rilevante di tutto il miracolo, vi è un particolare fondamentale, ed è il fatto che 5 giorni prima del compimento del miracolo Marchino mostrò ai compagni una puntina di lingua. Ciò ribadisce il fatto che fino a quel momento egli ne era privo. Nei giorni successivi egli rimase sotto l’osservazione di più persone, in primo luogo della madre adottiva che lo portava davanti all’immagine della Madonna e pregava perché guarisse, ma non avvenne niente. Dunque se la mattina del 29 aprile egli aveva la lingua, essa gli era sorta all’improvviso in quella notte. Così rimane escluso che essa possa essere cresciuta lentamente e per forze naturali nei 5 anni trascorsi tra le prime indicazioni dei testimoni ed il miracolo finale.
Sulla vita successiva di Marchino abbiamo poche notizie. Subito dopo il miracolo la madre lo rivestì di bianco e di azzurro, i colori della Madonna, ma dopo pochi giorni lo dovette portare a Parma da dei parenti per sottrarlo all’assedio soffocante dei concittadini. Il 10 novembre 1596, quando con una processione grandiosa il Vescovo diede inizio al culto ufficiale alla Madonna della Ghiara, Marchino era sotto la Croce che precedeva il gruppo dei frati Serviti; nella seconda processione invece, che si tenne il 12 maggio 1619 per inaugurare la nuova chiesa e trasferirvi l’immagine miracolosa, Marchino guidava il gruppo dei cappuccini e ne portava la croce. Era infatti entrato nell’ordine assumendo il nome di fra Giovanni Maria.
E’ strano che non abbia scelto l’Ordine dei Servi. La ragioni possono essere tante. Osserviamo solo che, sul piano religioso, la sua vita in un Ordine, di cui egli costituiva una gloria, avrebbe messo a dura prova la sua umiltà; d’altra parte i Cappuccini erano i frati che a Reggio seguivano la regola più severa.
Si unì a questi come frate laico, impegnato alla preghiera e a dure penitenze, e contemporaneamente agli umili servizi di tener pulito il convento, coltivare l’orto, servire in cucina, curare i confratelli ammalati, girare per la questua in città. La sua umile santità lasciò traccia, tanto che circa un secolo dopo fra Giuseppe da Cannobbio pubblicò una sua breve biografia in appendice agli Annali dell’Ordine dei Cappuccini; in essa lo definì: “uomo di somma astinenza, di oratione quasi non mai intermessa, di una somma carità verso tutti, e principalissimamente infermi ed umilissimo fra tutti li più umili laici. Soprattutto però venerò … con tenera pietà la Gran Madre di Dio, come sua Benefattrice … né usava chiamarla con altro nome, che di Madre sua; ed implorando il di lei patrocinio ottenne molte insigni gratie”. Di queste fra Giuseppe ne ricorda due: la guarigione improvvisa “con miracolo agli occhi di tutti” “da un interno mortale canchero” in gola e la salvezza nell’attraversare un fiume in piena “viaggiando verso Mantova”. Questi particolari sono certo alterati dall’evidente tono agiografico, ma sono credibili nella sostanza, in quanto sono uno sviluppo coerente di ciò che sappiamo del giovane Marchino. [per la vita di Marchino tra i Cappuccini cfr. BIGI Mariano, Marchino nell’archivistica dei Cappuccini, in: Bollettino Storico Reggiano, n. 118, marzo 2003] Nel 1630, l’anno della grande peste famosa per la descrizione manzoniana, egli si trovava nel monastero di Piacenza. Il 2 agosto fu preso da un attacco così violento di peste che morì in poche ore, facendo appena in tempo a farsi portare la tavoletta con l’immagine della Madonna che egli sempre venerava. Così egli, il trovatello, visse sempre povero, ma morì ricchissimo, poiché affrontò gli istanti supremi con la serena, appagante certezza di essere atteso “dalla Madre sua”. (Z. D.)