Questa chiesa ha una sua preistoria. In epoca romana la zona era immediatamente al di fuori della città quadrata. Qui fu edificata una chiesa dedicata a S. Vitale. Sulla sua origine non abbiamo documenti, ma il nome del Santo ravennate ci riporta ai primi secoli della Chiesa reggiana (post 313). Quando nel 1443 sorse la confraternita di flagellanti di S. Girolamo, essa era dunque antichissima, non più officiata e pressocché in rovina. Così la nuova confraternita, che era alla ricerca di una sede, l’ottenne gratis dall’ente proprietario, il monastero delle monache di S. Raffaele, e, grazie alla generosità di Valerio Valeri, potè restaurare la chiesa, recintare l’orto e costruirvi l’oratorio, un portichetto e la stanza per la flagellazione. Nel secolo successivo i confratelli edificarono un nuovo oratorio, così nell’anno 1600, quando si costruì (principalmente a spese di Ippolito Pratonieri ed Ercole Munari) la riproduzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, l’oratorio primitivo fu assai utile per ospitarlo, anche se lo si dovette innalzare, perché era troppo basso.

Nel Seicento dunque questa pezza di terreno, certo non grande, era costellata da varie costruzioni, probabilmente in disordine, dato che si erano assommate nel tempo. Nel 1646 iniziò un’impresa titanica, che si compì nel 1653: tutto fu distrutto e sostituito dalla costruzione che vediamo oggi. L’impresa fu titanica non tanto perché la confraternita fosse piccola (per tutto il Cinquecento non superò, sembra, i 30 confratelli) e formata da persone di tutti i livelli sociali, ma perché tutto il peso fu sostenuto da un uomo solo, Simone Resti, che si prese sopra le spalle la responsabilità giuridica della costruzione e poi la pagò integralmente col suo patrimonio, vendendo i suoi beni man mano che procedevano i lavori.
Oggi dunque, per spiegare i perché dell’edificio, molto originale, che si è realizzato e che rimane tuttora, conviene porsi tre domande: quali erano le esigenze materiali della confraternita? quali erano le sue scelte spirituali? come ha risposto l’architetto alle indicazioni dei committenti?
Le confraternite di regola puntavano ad avere un proprio oratorio distinto dalla chiesa, riservando quest’ultima alle sole funzioni liturgiche, mentre l’oratorio ospitava i vari momenti della vita comunitaria: la preghiera, la meditazione, le discussioni pratiche, le elezioni, i pagamenti… Inoltre i nostri confratelli fin dall’inizio evitarono di flagellarsi in chiesa, per non profanarla nel caso fosse caduto del sangue, e si costruirono una stanza apposita, per di più buia, affinchè la flagellazione non fosse condizionata da ragioni umane, ma rispondesse ad una scelta spirituale personale.
Circa la seconda domanda va detto che fin dall’inizio la spiritualità della confraternita fu legata alla passione di Cristo; questo era in sintonia col fatto che i confratelli, flagellandosi, intendevano collegarsi alle sofferenze di Cristo ed è dimostrato, nel nostro caso, dagli antichi inventari dei beni mobili, che ci mostrano la larga preponderanza dei simboli e delle raffigurazioni della Passione. Agli inizi del Cinquecento è registrata anche una statua di “Cristo nudo in pietà”, una “capseta de legno depincta in forma de una sepoltura” e una cassa “cum cose del sepulchro”, tutte cose che ci indicano l’uso di accompagnare i riti pasquali con una vera rappresentazione del “sepolcro”, cioè di Cristo morto con oggetti e simboli della sua passione.
Questa devozione ebbe un forte incentivo nell’anno 1600, quando Ippolito Pratonieri, tornato da Gerusalemme col modello del S. Sepolcro, ne curò la ricostruzione (in dimensioni ridotte di circa la metà) nell’oratorio vecchio della confraternita ed ebbe lo sviluppo definitivo nelle disposizioni che i confratelli diedero al Vigarani in vista della costruzione dell’edificio attuale. Premettiamo un elemento: le costituzioni della confraternita non prevedevano nessun impegno esterno, ma tutto l’itinerario spirituale con cui i confratelli muovevano incontro a Dio si svolgeva all’interno di queste mura. I confratelli allora vollero che le mura stesse fossero presenza di Dio in quanto ricche di reliquie di martiri e di ricordi di Cristo. Per questo si ispirarono al Sancta Sanctorum di Roma (presso S. Giovanni in Laterano) in cui erano e sono raccolte le reliquie più sacre della Chiesa romana, a partire dalla Scala Santa del palazzo di Pilato, portata a Roma nel medioevo. Così ordinarono all’architetto di riunire in un unico edificio le vecchie strutture dell’oratorio, del S. Sepolcro e della chiesa e di aggiungervi la Scala Santa; poi si diedero da fare per procurarsi reliquie di martiri, che furono collocate in tante arche tra le colonne della nuova chiesa, in modo da farne un Santuario.
Tutta la costruzione fu affidata all’architetto Gaspare Vigarani, a cui fu data autorità anche sugli artisti delle arti minori, in modo che tutti gli elementi particolari rispondessero alla sua idea generale. A monte delle scelte dell’architetto stava però la volontà della confraternita di ripetere non solo la struttura della Scala Santa, ma anche del Sancta Sanctorum che la conteneva, per cui oggi l’edificio presenta due stili diversi: quello manieristico nella facciata e nella parte anteriore (l’edificio romano era stato ricostruito dal Fontana attorno al 1580) e quello barocco nella “Rotonda” cioè nella chiesa-santuario nella parte posteriore, che è tutta di creazione del Vigarani. D’altra parte, questa giustapposizione di tanti elementi architettonici determina poi una caratteristica del complesso di S. Girolamo: la molteplicità delle scale e dei corridoi di raccordo tra una parte e l’altra, che certo hanno messo a dura prova l’architetto.
Tutta l’opera ha richiesto qualche anno di preparazione e si è precisata col tempo. Il 22 dicembre 1644 gli Anziani di Reggio concedevano alla confraternita il diritto di occupare una striscia trapezoidale di terreno pubblico larga dalle 3 alle 7 braccia per fare “certa loro fabrica” tra il loro orto e le mura cittadine, cioè a sud della chiesa attuale. Allora evidentemente si pensava solo di costruire la Scala Santa in aggiunta a quanto preesisteva. Contemporaneamente il Vigarani si trovava a Roma e poteva studiare a fondo il Sancta Sanctorum presso S. Giovanni. Quando poi ha dovuto adeguare la struttura romana alle esigenze reggiane, ha trovato una soluzione di ottimo effetto. A Roma infatti la scala Santa è fiancheggiata da 4 scale uguali, per cui la facciata della chiesa presenta 7 arcate; questo la rende poco unitaria e più simile a un portico che ad una facciata. Il Vigarani invece ha ridotto a tre sia le scale sia le arcate, ha costruito sopra il loggiato il grande vano dell’oratorio dei confratelli, illuminato in facciata da tre finestroni corrispondenti agli archi ed ha così costruito una vera facciata, anche se più adatta al palazzo di Pilato che a una chiesa. Collocando poi due scale uguali ai due lati della Scala Santa, ha dato alla parte anteriore della chiesa una simmetria perfettamente bilaterale; infatti nei due interstizi tra le scale vi sono due corridoi uguali che portano al piano della Rotonda, al di sopra delle scale vi sono due grandi volte a botte che sostengono una pesante decorazione a stucco (quella di sinistra è caduta per un terremoto); in alto alle scale un pianerottolo le congiunge con la Scala Santa, rispetto alla quale fungono da scale di servizio, e due corridoi per parte portano ai due ingressi dell’oratorio dei confratelli.
Come in facciata troviamo due strutture fondamentali, la Scala Santa e l’oratorio dei confratelli, così nella parte posteriore vi sono, una sopra l’altra, la cripta col Sepolcro di Cristo e la Chiesa, o Santuario, detta la Rotonda. Quest’ultima è il gioiello di tutto l’edificio, è il vanto della chiesa e della città. E’ opera di grande originalità ed eleganza, piena di vita, di spazio e di movimento, è un capolavoro in cui con piena coerenza la libertà dell’artista trova la sua più compiaciuta espressione. Al di sotto di questa il Sepolcro di Cristo, mutilo e spoglio, è il centro religioso di tutta la costruzione. Nel 1600, quando fu costruito, i confratelli vi fecero all’interno un altare, sperando di potervi dir Messa, ma l’autorizzazione non venne, perché il vano era troppo angusto; successivamente quindi sostituirono l’altare con la pietra tombale. Il muro della cripta è umido e privo di intonaco. E’ curioso il fatto che nel rogito del 16/7/1650 con cui Simone Resti e Girolamo Beltrami concordano i lavori ancora da fare, si precisa che il muratore “non sia tenuto a farvi alcuna stabelitura [intonaco]”: sarebbe interessante sapere se è rimasto così da allora. Nell’edificio non si identifica un luogo specifico per la flagellazione; solo un documento degli inizi dell’Ottocento ci dice che la riunione dei confratelli del venerdì sera si teneva nella cripta del Sepolcro. Poiché il venerdì era il giorno della flagellazione, è logico concludere che essa si tenesse attorno al Sepolcro. In cripta, tra l’altro, non vi è altare.
In conclusione tre considerazioni.
La chiesa è un’opera fortemente unitaria, nel senso che è stata concepita e realizzata da un unico artista, la sua costruzione non ha subito interruzioni e modificazioni e si è conclusa in appena 8 anni. E’ dunque quanto mai adatta per studiare un artista, uno stile, un modo di fare arte, una realtà umana e spirituale alle spalle di un impegno economico, organizzativo, tecnico di tanto rilievo.
Bisogna però tener ben presente che quello che vediamo oggi non è quello che vedevano i nostri avi. Una chiesa è una realtà che va al di là della sue strutture architettoniche. Gli uomini col tempo la stringono, la dilatano, la modificano coi colori, i drappeggi, le cancellate, i banchi e le strutture in legno, le lampade, le balaustre… Tutto questo in S. Girolamo manca, manca persino il colore, che è ridotto al bianco della povera calce. Eppure nel rogito citato del 1650, quando era stata completata la cupola della Rotonda, ma mancavano ancora i due colonnati, che oggi sembrano così essenziali alla chiesa, i confratelli impegnavano il capomastro a consegnare loro la chiesa 15 giorni prima di Natale sistemata in modo “che si possi adornare con tapezerie et drappi per potervi celebrare la Messa nelle dette feste”. Di queste “tapezerie et drappi” e di quelle più ricche approntate in seguito oggi rimangono, infissi al muro, i chiodi a cui erano appese. L’edificio del Vigarani è ridotto alle nude muraglie. Questa desolazione non è dovuta soltanto al morso divoratore dei secoli. In una lettera del Soprintendente alla Questura di Reggio datata 1/7/1946 si legge che durante la seconda guerra mondiale i quadri e le suppellettili erano stati riuniti in un ambiente appartato della chiesa, poi “l’8 settembre la chiesa venne in mano dei tedeschi e poi di milizie repubblichine; in seguito … venne abbandonata e le popolazioni povere del vicinato verso la fine del febbraio 1944 poterono introdursi … e per due mesi vi hanno portato indisturbati l’opera più vandalica che si possa immaginare. Delle suppellettili mobili e dei quadri non è rimasto più nulla, tutto fu asportato”. In particolare furono asportati e bruciati tutto l’archivio ed il ciborio in legno dipinto (alto più di due metri) che era collocato sopra il Sepolcro.
Anche per S. Girolamo dunque vale il principio che va tenuto presente per tutte le opere antiche: se vogliamo giudicarle, dobbiamo avere tanta cultura da essere capaci di ricostruirle mentalmente come erano.
D’altra parte gli uomini sono tenaci come le formiche anche nel ricostruire. Anche oggi, guardando la chiesa, tanti si chiedono cosa si deve fare e cosa si potrebbe fare. La parte più bisognosa di interventi è la cripta col Santo Sepolcro: in caso di un temporale particolarmente violento vi scorre addirittura l’acqua; andrebbe sanificata e intonacata; poi andrebbe ricostruito il ciborio sopra il Sepolcro, di cui abbiamo i disegni e le misure e che sarebbe di forte impatto architettonico; in cripta infine si potrebbe iniziare una sistemazione organica delle opere d’arte che rimangono. Se poi si avverte il bisogno di un indirizzo operativo che guidi i nostri interventi, si può tener presente il titolo dello studio più importante sulla nostra chiesa: Quasi un Sacro Monte [B. ADORNI ed E. MONDUCCI, Quasi un Sacro monte. San Girolamo di Reggio Emilia di Gaspare Vigarani, Reggio E., Diabasis, 2001]: l’edificio, nella molteplicità dei suoi elementi in riferimento alla passione di Cristo, è visto come un Sacro Monte in embrione. In questo senso possiamo valutare anche gli interventi del dopoguerra: prima si è costruita la casa della carità, poi si è piantato un ulivo nel giardino, poi (nel 2020) si è collocata nel corridoio dell’oratorio la riproduzione in cocciopesto di Giuliano Melioli dell’Ultima Cena di Leonardo.
Anche oggi dunque si può continuare a lavorare meditando sulla Passione. (Z. D.)