Vescovo di Reggio (1510-1540)
Apparteneva ad una delle famiglie più potenti di Modena, quella dei Conti Rangone, che gli ha innalzato un monumento funebre nella cappella dei Canonici della nostra cattedrale; questo è oggi il più imponente che rimanga e ha dato alla cappella il nome di Cappella Rangone.
Nell’agosto del 1510 l’esercito di Papa Giulio II si presentò davanti a Modena ed intimò la resa; la città era sguarnita di difese e Gherardo Rangone aprì le porte all’esercito papale. Reggio rifiutò di fare altrettanto e Giulio II la colpì con l’interdetto. Il 10 ottobre moriva improvvisamente a Bologna Gianluca Castellini, vescovo di Reggio, ed otto giorni dopo Giulio II nominava come suo successore Ugo, figlio di Gherardo, sebbene avesse solo 25 anni. Così egli ricambiava il favore avuto da Gherardo e collocava una persona a lui fedele in una diocesi che voleva far sua. Infatti una nomina così rapida fa pensare che Ugo fosse già inserito a qualche titolo nella Curia romana.
Egli era nato nel 1485 o circa, si era laureato a Padova in utroque iure ed aveva già gli ordini minori; dal 1505 infatti era investito della cappellania di S. Maria nella chiesa di S. Agata in Modena. Nel 1510 non potè prendere possesso della chiesa di Reggio, a causa dell’interdetto, che imponeva a tutti i chierici, tranne quelli necessari per i sacramenti ai moribondi, di lasciare la città. Questa si arrese nel 1512 e Ugo venne personalmente ad assolverla dall’interdetto. Purtroppo dovette lasciarla subito e solo nel novembre del 1514 venne a celebrare la sua prima Messa ufficiale in Cattedrale. Da quel momento egli alternò a periodi di permanenza qui ai suoi viaggi a Roma per i suoi impegni curiali fino alla fine del 1523; successivamente la sua presenza a Reggio è documentata per gli anni 1527-29 e 1538-39. Morì il 28 agosto 1540.
L’episcopato di Ugo Rangone, il primo dei due vescovi che la famiglia diede a Reggio (il secondo fu Claudio, che alla fine del secolo ebbe il compito di giudicare i miracoli della Madonna della Ghiara) si svolse in un momento cruciale per la vita della Chiesa. Questa da tempo subiva i mutamenti prodotti dalla cultura rinascimentale ed era preda di forti tensioni interne in vista di una riforma globale, tensioni che portarono da una parte alla rivolta dei Protestanti, dall’altra al Concilio di Trento.
Di tali avvenimenti il Rangone fu uno dei protagonisti, anche se non di primissimo piano. Nel 1512-14 egli era assente dalla diocesi perché era impegnato nel Concilio Lateranense V (la sua presenza è documentata in varie sessioni ed egli fece parte della commissione incaricata della riforma della Curia); nel 1515 era tra i prelati che accolsero al confine con Parma Francesco I di Francia che si recava ad incontrare Leone X; nel 1525 e nel 1527 fu inviato in Francia e Spagna con incarichi diplomatici di secondo piano; nel 1533 fu mandato come ambasciatore ai principi tedeschi per invitarli al concilio che il Papa intendeva fare per risolvere le controversie religiose (quello che poi sarà il Concilio di Trento). Questo fu l’incarico più importante da lui ricoperto, ma purtroppo non ebbe successo: la situazione era ormai troppo compromessa ed i principi luterani rifiutarono l’incontro pacificatore. Di questa legazione parlò anche fra Paolo Sarpi nella sua storia del Concilio di Trento, ma mentendo disinvoltamente sul suo svolgimento, come era solito fare quando ciò gli tornava utile nella sua lotta anticuriale in difesa della supremazia della Repubblica di Venezia anche in campo religioso. Successivamente il Rangone fu per breve tempo governatore di Parma, ma fu subito richiamato a Roma perché andasse come ambasciatore da Carlo V. Questo progetto non si concretizzò, perché, a quanto scrive un cronista: “egli è un uomo appesantito e inadatto ad andare velocemente come vuole Sua Santità”. Allora gli fu dato il governatorato di Roma. Continuò a lavorare per il concilio nel 1536, quando fu tra i redattori di una bolla di convocazione, e nel 1537, quando, con il Giberti, fu inviato a Vicenza per curare i preparativi del concilio, che allora si pensava di svolgere là.
Questo coinvolgimento nei problemi più nuovi e pressanti della Chiesa si nota anche nel suo lavoro per la diocesi, anche se spesso tramite i vicari, data la sua assenza. Sono rilevanti, innanzitutto, due leggi che il Consiglio cittadino emanò nel 1513 e nel 1516 e che toccavano i diritti della Chiesa; la prima mirava a contenere l’entità della manomorta ecclesiastica, poiché il suo dilatarsi faceva aumentare innaturalmente i prezzi e bloccava il commercio; per questo si stabiliva che gli enti ecclesiastici non potessero acquistare beni immobili senza l’autorizzazione del potere civile. La seconda, per ridurre le spese che minavano i patrimoni delle principali famiglie della città, non solo regolava il lusso delle vesti femminili, ma riduceva anche il fasto dei funerali, ai quali si invitava un numero sempre più abnorme di preti e frati (con relativa offerta) e si distribuivano grandi quantità di pane ai poveri. Le due leggi furono ostacolate clamorosamente dal clero locale, ma non dal Rangone ed ottennero l’approvazione papale (Reggio in quegli anni era Stato della Chiesa), anche se poi la loro applicazione fu frenata da mille difficoltà e dal mutare della situazione. Esse tuttavia sono molto significative, poiché quando nel Settecento il Duca di Modena iniziò la sua politica giurisdizionalista, giustificò il suo operato appellandosi proprio all’approvazione papale su queste e altre leggi consimili.
Significativo dell’operato del Rangone è il fatto che dall’inizio alla fine del suo episcopato egli ha sviluppato un’opera sistematica per la riorganizzazione della sua Chiesa e per riportare il comportamento dei sacerdoti a forme moralmente accettabili e religiosamente corrette, in vista di quella riforma generale a cui si stava faticosamente lavorando. La prima iniziativa importante di cui abbiamo notizia fu la celebrazione di un sinodo diocesano nel 1516. L’anno precedente nel Concilio Lateranense si era stabilito che si dovesse riprendere l’attività sinodale, che ormai era in disuso; il Rangone fu il primo, a quanto risulti (le delibere in proposito rimanevano manoscritte, per cui sono andate facilmente disperse), che rispose all’indicazione e fece del suo sinodo non un momento in cui, come in passato, si deliberavano spese e si risolvevano problemi burocratici, ma un vero tentativo di riforma ecclesiastica. Significative sono le disposizioni sulla residenza dei preti di campagna, che amavano andare alle sagre dei confratelli, lasciando i loro fedeli senza Messa domenicale ed esposti al pericolo di morire senza sacramenti.
Più volte il Vescovo si preoccupò dell’officiatura in cattedrale: ci rimangono costituzioni anteriori al 1528, poi del 1529 e del 1538. Molto più importante fu la visita pastorale in tutta la montagna, che egli nel 1530 fece fare al suo vicario e di cui rimangono i verbali. E’ probabile che sia stata eseguita solo in montagna, perché se nelle pievi il parroco era addottorato in diritto canonico (come spesso è documentato) aveva potere di visita su tutte le realtà ecclesiastiche della sua pieve. In ogni caso, ci rimangono anche verbali di parrocchie visitate nella bassa nel 1538 e ’39. Questa visita, come quella più famosa fatta eseguire una dozzina di anni dopo dal Card. Cervini, non si limitò a sistemare le questioni giuridiche della varie chiese, ma esaminò la preparazione culturale ed il comportamento morale dei singoli sacerdoti, in linea con una politica di riforma. Per questo essa era seguita da un lavoro della curia episcopale per richiamare e controllare i sacerdoti ai quali era stato intimato qualche provvedimento. Questo lavoro diede i suoi frutti; nell’archivio vescovile infatti si conserva un registro del 1538 che elenca tutte le chiese, i benefici ed i relativi rettori della diocesi, il che vuol dire che in quel momento il Vescovo aveva in mano la realtà dettagliata della sua chiesa, che, almeno sul piano organizzativo, era in ordine.
Per il resto, la via ecclesiastica reggiana ebbe un sussulto nel 1522, quando il Rangone fece una ricognizione alle ossa dei SS. Grisanto e Daria. Erano state portate a Reggio nel X secolo, ma, mancando i documenti in proposito, si sussurrava che l’urna fosse vuota. L’interesse popolare era grande, per l’alto valore che si attribuiva alle reliquie degli uomini di Dio, che conservavano quell’infinita presenza del divino, che aveva animato i santi in vita. Ricordiamo, ad esempio, che nel 1515 sul frontispizio degli Uffici dei Santi Patroni di Reggio era stata posta una xilografia in cui si vedeva una veduta sommaria della città, ma davanti alle sue torri, più grandi di esse perché più potenti, veri baluardi della città, vi erano S. Prospero, S. Grisanto, S. Daria e S. Venerio. Altrettanto grande dunque sarebbe stata la delusione, se non si fosse trovato nulla; per questo né l’Arlotti né il Castellini avevano osato dar corso all’iniziativa. La decisione del Rangone fu premiata e tutti i cittadini piansero e pregarono nella cattedrale e nella piazza mentre egli innalzava davanti ai lori occhi le ossa ad una ad una. Alla cerimonia era presente anche Francesco Guicciardini, allora governatore papale di Reggio.
Molto dolorose invece furono le vicende per la riforma del convento femminile di S. Chiara. Era governato dai francescani conventuali di S. Francesco, ma il comportamento delle suore suscitava scandalo. D’altra parte in esso erano entrate le donne delle migliori famiglie della città, per cui era assai difficile arrivare a decisioni drastiche e a farle applicare. Si arrivò al punto che nel 1530 un gruppo di giovani scavalcò le mura del convento di S. Francesco e ne cacciò violentemente i frati, con la triste conseguenza che i francescani osservanti rifiutarono di assumersi il governo e gli Anziani, non avendo più nessuno a cui rivolgersi, si adattarono a prendere loro il controllo, nominando 11 sindaci perché provvedessero. Il risultato fu che i sindaci, non riuscendo ad ottenere nulla, una notte chiusero a chiave le suore dentro al convento e quelle scardinarono la porta e se ne andarono per la città. Si badi che in questo caso il Vescovo era escluso dalla controversia, perché allora tutti gli ordini religiosi erano autonomi rispetto alle autorità diocesane. Il Rangone, invece, che si trovava a Roma, fu prezioso per sostenere lo sforzo degli Anziani. Data l’autonomia dei conventi, infatti, le trattative risalivano da parte delle suore al Generale dell’Ordine e al Cardinal Protettore e da parte dell’autorità civile alla curia papale. Solo nel 1539 si ottenne un breve che sottometteva tutte le suore della città al Vescovo. La soluzione era rivoluzionaria, ma rientrava nella scelta che si andava precisando di realizzare la riforma della Chiesa puntando sui vescovi e rafforzando i loro poteri.
Per Reggio però era tardi, poiché il Rangone era vicino alla morte. Fece in tempo ad affrontare la gravissima carestia del 1530-40 organizzando assieme al Comune gruppi di “economi” che raccoglievano le offerte e le distribuivano ai poveri parrocchia per parrocchia. Personalmente prestò al Comune una grandissima somma (si disse 4.000 ducati) e alla fine donò i suoi argenti personali.
All’inizio del 1540 fu colpito da paralisi; sembrò riprendersi, ma il 28 agosto 1540 morì.
Di fronte ad una vita così intensa viene spontaneo chiedersi quanto ci sia in essa di formale, di consuetudinario, di utilitaristico e quanto invece di personale, di sofferto, quanto abbiano influito la fede, la bontà, la disponibilità a impegnarsi per gli altri. Questa domanda è tanto più legittima per il Rangone, dato che in lui vi è una specie di peccato di origine, in quanto il racconto della sua nomina a vescovo sembra indicare che essa non avvenne per motivazioni religiose, ma politiche. Di fronte alla freddezza dei documenti è difficile dare una risposta. Per il Rangone fortunatamente ci rimane una testimonianza preziosa, quella del cronista modenese Tommasino de’ Bianchi, detto il Lancillotto, che era cristiano severo e membro di confraternita. Egli a partire dal 1534 riferisce le voci che il Papa stesse per fare Ugo cardinale; le riferisce con soddisfazione e una volta commenta: “che Dio il voglia, per essere persona che lo merita”. Lo stesso Lancillotto, nel corso della carestia del 1539, lo rimprovera di aver dato tanti ducati per i poveri di Reggio e non per quelli di Modena sua patria. Dai dati biografici che abbiamo riferito possiamo trarre tre indicazioni: il suo continuo alternare i periodi di residenza a Roma con quelli reggiani ci indica che egli, quando era libero dagli incarichi romani, non andava ai Castelli a bere frascati, ma veniva a caricarsi degli impegni reggiani; le tante lettere che si conservano nel suo epistolario col Consiglio degli Anziani dimostrano sempre stima e collaborazione e infine è un segno molto significativo il fatto che egli dispose nel suo testamento di essere sepolto a Reggio, sacrificando così la gloria del suo casato all’attaccamento per la sua Chiesa. (Z. D.)